A te che sembri sempre troppo piccolo per quello che contieni.

A te che sei osannato come tempio, come casa.
La prima, forse la sola vera casa.

A te che per il modo bizzarro che spesso la vita ha di farci tornare a casa,
sei capace di diventare anche il luogo più scomodo, distante, a tratti sconosciuto.

Quanto di più lontano ci sia, da una casa.

Ti lasciavi abitare, ma non ti lasciavi sentire.
Ti facevi toccare, ma non ti facevi sentire.

Eppure eri lì.
Io ero lì.

Eravamo lì insieme.
Ma dove?

Non ti sentivo.

“Tu mi senti?” mi chiedevo.

A volte, troppo spesso, mi sono dimenticata dell’importanza del contatto.
Ti contattarti. Di contattarmi.

E vivevo, intanto.
In quella sospensione che era più una sopravvivenza, che vita.

 Avevi imparato a spegnerti, per non sentire.

La memoria, però, lei non riusciva a tornare a prima che quel bottone di spegnimento venisse premuto. Dov’era poi questo prima?

Io intanto continuavo a credere di sentirti.

Poi succede che all’improvviso ti sei lasciato sentire, per davvero.

Eccome se lo hai fatto.
A volte con un grido, altre con il vuoto,
un vuoto che gridava più forte delle grida stesse.

 Io intanto ho imparato ad ascoltarti,
sempre di più,
stando di più,
senza paura.

Caro corpo, sei capace di spegnere, di mandare in tilt un intero sistema,
per difenderti. Ma a che prezzo…

Ora però non serve.
Non serve più.

Puoi farti sentire,
puoi farti toccare,
puoi farti respirare,
puoi farti abbracciare.

Puoi farti vivere.

Perché sei al sicuro,
perché sei sicuro,
perché sei vivo!

E finalmente ti sento,
posso e voglio sentirti, 
posso e voglio abitarti.

Perché tu, oggi, sei casa.

L’11 ottobre ho guidato un laboratorio di yoga nidra e arte espressiva per Animenta Bologna – Associazione che opera nel campo dei disturbi dell’alimentazione – con cui in questi ultimi due anni ho collaborato come facilitatrice di attività. Il titolo del workshop era “Di radici e di luce”, ed è stato un viaggio per tornare, con gentilezza, al corpo.

Un tempo il corpo per me era distanza, confine, silenzio. Una presenza-assenza. Quasi trent’anni dopo, ho compreso che la dissociazione – il freezing – è stato il modo che il mio sistema nervoso ha scelto – fin da bambina – per rispondere al trauma. E’ difficile descrivere cosa significhi vivere le dissociazioni, fatta eccezione per quelle volte in cui queste ti mandano completamente in paralisi – fisica, emotiva e cognitiva. Le altre volte, gli effetti sono più sottili: funzioni, in qualche modo vivi, sei anche performante, agli occhi degli altri stai bene; ma è come se ci fossero dei fili scollegati, che non ti fanno sentire né da una parte, né dall’altra. Né presente, né assente.

Può capitare, come nel mio caso, che un evento risvegli violentemente la memoria traumatica che nel corpo è sempre stata, riportandola in superficie, alla mente — che però non ricorda l’evento né i dettagli. Nel corpo, però, il dolore resta vivo, presente. C’è un disallineamento, che rimane tale fino a quando il trauma non viene liberato, integrato.

Sfioro solo in modo superficiale un tema complesso, per dare una cornice a ciò che mi ha portata a ideare questo workshop: mettere al centro l’importanza gentile e delicata del ritorno al corpo.
Perché – con gli strumenti e le terapie giuste, con fiducia e amore verso di sé – è possibile recuperarlo, ritrovarlo, abitarlo di nuovo.

Si può tornare al corpo. Si può ricostruire un senso di presenza anche dopo anni di distacco, di allerta, di dissociazione, di sopravvivenza. Lo si può abitare di nuovo con delicatezza, con rispetto, con amore – ascoltandone i tempi, imparando a leggerli, trovando gli strumenti e il supporto più adatti per sé.

Questa Lettera al corpo è nata da lì: da quel dialogo tra la memoria e la vita che torna.
Da quel momento in cui, finalmente, non si cerca più di silenziare, fuggire o essere travolti da tutto, ma si impara a restare. Un respiro alla volta.

Letter to the Body
To you, who always seem too small for all that you contain.
To you, who are praised as a temple, as a home — the first, perhaps the only true home.
To you, who, in the strange ways life sometimes brings us back home, can also become the most uncomfortable, distant, at times unfamiliar place.
As far from a home as one could be.
You let yourself be inhabited,
but you didn’t let yourself be felt.
You let yourself be touched,
but you didn’t let yourself be felt.
And yet, you were there. I was there.
We were there together.
But where?
I couldn’t feel you.
“Do you feel me?” I used to ask.
At times — too often — I forgot the importance of contact, of touching you,
of touching myself.
And meanwhile, I lived — in that suspension that was more survival than life.
You had learned to switch off,
so you wouldn’t have to feel.
But memory — she could never go back to before that switch was pressed. And where was that before, anyway?
Still, I kept believing I could feel you.
Then, suddenly, you let yourself be felt — truly felt.
And oh, how you did.
Sometimes with a scream, other times with emptiness — an emptiness that screamed louder than any scream.
In the meantime, I learned to listen to you, more and more, to stay with you, without fear.
Dear body, you can shut down, you can short-circuit an entire system to protect yourself. But at what cost…
Now, though — it’s no longer needed.
Not anymore.
You can let yourself be felt,
you can let yourself be touched,
you can let yourself be breathed,
you can let yourself be embraced.
You can let yourself be lived.
Because you are safe now.
Because you are safety.
Because you are alive.
And finally, I feel you.
I can, and I want to feel you.
I can, and I want to inhabit you.
Because you, today, are home.